Body Art di Don DeLillo

Il tempo sembra passare. Il mondo accade, gli attimi si svolgono, e tu ti fermi a guardare un ragno attaccato alla ragnatela. C'è una luce nitida, un senso di cose delineate con precisione, strisce di lucentezza liquida sulla baia. In una giornata chiara e luminosa dopo un temporale, quando la più piccola delle foglie cadute è trafitta di consapevolezza, tu sai con maggiore sicurezza chi sei. Nel rumore del vento tra i pini, il mondo viene alla luce, in modo irreversibile, e il ragno resta attaccato alla regnatela agitata dal vento.

giovedì 4 novembre 2010

Petronio Arbitro

C'è una pagina su Facebook che si chiama Petronio Arbitro e in cui si fa un po' di satira. Le battute sono originali, anche se come spesso capita (non perché le copino, ma semplicemente perché talvolta le idee sono nell'aria e persone diverse inconsapevolmente le afferrano quasi nello stesso momento) le potete trovare (battute simili, non identiche) anche altrove. Ma non sempre, per fortuna. Se volete darci un'occhiata e contribuire, siete benvenuti.

venerdì 18 giugno 2010

L'attesa (prova di racconto breve...)

“Credo nelle persone buone e nelle cose che so fare. E credo che tu sia la più buona che conosco e più brava di me a fare praticamente tutto. Per questo ho fatto quello che ho fatto e mi sono precipitato qui. Perché penso, anzi, perché sono sicuro, che dovremmo farlo. Sono sicuro che dovresti infilarti questo anello e dire sì davanti al primo prete che incontriamo o al sindaco, perché so dove abita e non sarebbe un problema. Solo sì. Sono sicuro che dovresti fare quest’unica, semplice cosa. Perché ne ho bisogno, perché ti amo. E perché sapresti farla benissimo.”
Erano seduti su una delle panchine verde scrostato di quel parco vicino al fiume. Una vecchia panchina di legno, tipicamente incisa di amori adolescenziali e inni alla squadra del cuore. Lei guardava in basso, forse osservava l’astuccio dell’anello, che tremava visibilmente nonostante lui facesse di tutto per tenere la mano immobile, o forse no, forse aveva solo lo sguardo perso nel verde della panchina. La natura intorno profumava abbondantemente di legno, resina e fiori, e cinguettava, tubava, ronzava e li avvolgeva con sfumature di verdi e di gialli, di rossi e di lilla, di luci e di ombre. Eppure Marco non percepiva altro che il profumo dolce di lei, riusciva a vedere solo la sua canottiera azzurra intorno al profilo del seno, la gonna di cotone beige che le avvolgeva le gambe abbronzate e riusciva ad ascoltare solo quell’inaccettabile, inatteso, silenzio. Avvertì una fitta allo stomaco. La nuca si irrigidì e un brivido gli percorse la schiena, nonostante il caldo afoso di quel pomeriggio inoltrato di fine estate. Sonia spostò impercettibilmente lo sguardo di fronte a sé. Ma gli aveva proprio detto che era buona? Una cosa carina, dopotutto. E aveva anche detto che lei sapeva fare praticamente tutto? Ed era vero o era solo lui che la vedeva così? E infine le aveva chiesto davvero di sposarlo? Aveva tirato fuori l’astuccio, l’aveva aperto, ponendo una cura esasperata nei movimenti e aveva cominciato a parlare. Il modo in cui le aveva detto quelle cose a lei era sembrato strano. Non avrebbe saputo dire esattamente perché, ma le erano sembrate parole scritte, piuttosto che dette. Lui era stato bravo, sicuro di sé, aveva fatto le pause giuste, aveva recitato la battuta come avrebbe fatto un attore consumato. Le aveva fatto venire in mente sua madre, ciò che le ripeteva continuamente. Anche se arriveranno inevitabilmente i fallimenti, tu non perdere mai la speranza. Devi crederci. C’è una e una sola persona che potrai amare davvero e che saprà ricambiarti in egual misura. Una sola. E’ là fuori da qualche parte e se ci credi, finirai per incontrarla. Non accontentarti mai, figlia mia. Non arrenderti. E poi lui aveva detto ti amo, proprio così, e in quel momento lei aveva sollevato lo sguardo. Marco si era spettato uno di quegli ampi sorrisi di cui lei era capace, pensava che lo avrebbe guardato dritto negli occhi e che avrebbe fatto la sua parte, senza indugi. Immaginava che lo avrebbe baciato, gettandogli le braccia al collo. Invece lei aveva solo spostato impercettibilmente lo sguardo di fronte a sé. Ma dio santo! Che cosa fa? Marco aveva ripetuto quelle parole centinaia di volte. Le aveva ascoltate, aveva provato le pause, ne aveva assaporato il suono e aveva deciso che erano giuste, precise. E adesso era pietrificato, non aveva niente da aggiungere, qualsiasi cosa, anche solo un sospiro, avrebbe incrinato la perfezione che si era immaginato. Toccava a lei parlare e lui poteva solo aspettare. Ma perché non diceva nulla? Meglio dire subito di no. Forse era stato precipitoso. Lei, però, avrebbe potuto semplicemente dire che sarebbe stato meglio aspettare e lui avrebbe capito, avrebbe deglutito con naturalezza e se ne sarebbe fatto una ragione. Oppure non lo amava abbastanza? O forse non lo amava più? No, a questo non poteva credere, non voleva credere. Ma cosa guardava poi con tanta attenzione? Cosa c’era di più importante di quello. Le due donne che arrivavano di corsa forse? Marcò guardò nella stessa direzione. Una figura stretta e lunga, esibiva una corsa perfetta, precisa, si sollevava da terra con balzi regolari, come se disegnasse, con i passi, una leggera onda sonora. L’altra, tonda e larga, sembrava invece rotolare, strisciare, i piedi avvolti in una nube di polvere, pareva non riuscisse a staccarsi dalla strada sterrata. A Marco vennero in mente le comiche di Laurel & Hardy e sorrise per un istante. Ora erano abbastanza vicine. Una era davvero molto bella. Alta, austera, i muscoli delle cosce che si tendevano a ogni passo sotto la pelle bianca, i capelli biondi lucidi, tirati indietro e legati in una breve coda sulla nuca, la fronte liscia, il naso piccolo e dritto, le guance velate di un rosa pallido, le labbra purpuree, socchiuse, che lasciavano intravedere una sottile linea di denti candidi. L’altra invece, senza dubbio oltre il quintale, aveva il viso deturpato dallo sforzo e gli occhi segnati da profonde occhiaie viola. Marco indugiò sulle cosce e sui fianchi traballanti come panna cotta. Poi salì su fino al seno enorme che le rimbalzava ad ogni passo tra il mento e il ventre adiposo. Notò le guance rosso scuro, la bocca spalancata, la lingua appoggiata sul labbro inferiore. Sentì addirittura il suo respiro affannoso, quasi un rantolo che avvolgeva il silenzio perfetto della corsa dell’altra. Per un attimo ne incrociò lo sguardo affaticato e quegli occhi piccoli, schiacciati dalle guance ingombranti, annegati in un sudore eccessivo, gli parvero occhi conosciuti. Cercò di ripescarli dal suo passato, elementari, medie, liceo, università, ma niente. Per educazione stava quasi per alzare una mano in segno di saluto, ma poi si ricordò perché era là, si ricordò delle parole che aveva appena pronunciato e il cuore saltò un battito, quando realizzò che lei non aveva ancora risposto. Da dietro, lo spettacolo delle due donne che si allontanavano rapidamente, era ancora più surreale. Da una parte muscoli quasi immobili che si contraevano ritmicamente con elegante tensione, avvolti in un pantaloncino blu attillato. Dall’altra debordo adiposo che neppure la tuta fucsia elasticizzata riusciva a contenere, come quando ti versi un bicchiere di birra troppo in fretta e la schiuma densa bianca monta e trabocca inevitabilmente. Che bella quella biondina! Però guardare un’altra così proprio in questo momento. Sonia abbassò nuovamente lo sguardo. Fin’ora non aveva avuto il coraggio di guardare esplicitamente l’astuccio con l’anello. Con la coda dell’occhio notò che la mano di lui tremava leggermente, allora tornò a cercare con lo sguardo la scritta incisa tanti anni fa. Il primo fidanzatino, com’è che si chiamava? Ah, eccola! Mau e Sonia. Il piccolo Maurizio aveva un sorriso così divertente, con quei suoi incisivi enormi da coniglio. Quanti anni erano passati? Venticinque? Forse di più. E guarda un po’, i loro nomi erano ancora là, chiusi nel perimetro asimmetrico e tremolante di un cuore, attraversato da un’improbabile freccia. Fossile affidato alle generazioni future, almeno finché la panchina sarebbe rimasta là. Ma non era certo il momento per il viale dei ricordi. Non era certo il momento di divagare. Lui aspettava. Sulle panchine intorno alcune mamme con carrozzina parcheggiata a fianco, chiacchieravano amabilmente, mentre con un mano cullavano il bebè dormiente. C’erano ragazzi e ragazze alle prese con un libro, oppure con un settimanale. E più in là due anziani. Uno parlava in modo concitato, guardando dritto davanti a sé come se si rivolgesse a un interlocutore inesistente. L’altro si limitava ad annuire, mentre sbriciolava un panino sopra le teste di volatili ammassati ai suoi piedi. E c’erano i fanatici del jogging. Piccoli piccoli si avvicinavano fino a raggiungere scala 1:1, ma solo per un attimo, poi proseguivano, tornando a rimpicciolirsi fino a sparire. E c’erano i bambini. I più grandi correvano, gridavano come ossessi, calciavano palle, si contendevano i giochi, si spintonavano irrequieti, piangevano. Quelli prescolari invece, precariamente deambulanti, vacillavano coraggiosamente sulle gambette inesperte. Sembrava dovessero ruzzolare a terra da un momento all’altro e invece, come sostenuti da fili invisibili, procedevano miracolosamente, un piede davanti all’altro, dichiarando guerra a questo o quell’insetto. Il mondo procedeva come sempre. Il parco offriva il solito spettacolo, nessuno badava a loro, nessuno poteva immaginare l’importanza di quel momento. Finalmente Sonia si decise a guardare Marco dritto negli occhi. Aveva aspettato troppo? Ma no, dopotutto lui aveva appena detto quella cosa così strana, cioè che lei lo avrebbe saputo fare benissimo. Era passato solo qualche istante, il tempo necessario per assorbire le sue parole. Sonia sorrise e sentì i capelli scivolarle davanti a un occhio e solleticarle la guancia. Marco avrebbe voluto gridare. Sentiva gli occhi gonfiarsi, un nodo avvilupparsi intorno alla trachea. Socchiuse le labbra e percepì che tra un istante ne sarebbe venuto fuori tutto il suo sgomento, il suo rammarico per aver rovinato tutto, per aver pensato così arbitrariamente, che fosse il momento giusto. Ma è un sorriso quello? Finalmente gli occhi di Sonia. Marco non sapeva se fosse il caso di dire qualcosa, se sarebbe stato meglio prevenire qualsiasi sua obbiezione e sollevarla dall’eventuale imbarazzo. Oppure se fosse stato meglio aspettare ancora un istante. E poi finalmente lei lo fece. Ricacciò dietro l’orecchio, con un gesto elegante, la ciocca di capelli che le era scivolata sul viso. Un raggio di sole, profumato di ciliegio, si posò sul suo sorriso e lei allungò una mano sull’astuccio aperto, che finalmente smise di tremare. E mentre succedevano infinite altre cose, tutt’intorno a loro e un caleidoscopio di colori danzava, e voci e suoni fluivano, come quando sei su una giostra e il mondo gli corre intorno senza posa, lei finalmente, con tutta la semplicità di cui era capace, lo fece.
“Sì”, disse.
E fu perfetto.

mercoledì 9 giugno 2010

Lost: perché NON è un capolavoro!

Su BestMovie, la mia opinione sul finale della serie televisiva LOST!

venerdì 4 dicembre 2009

Luna tic # incipit (prove di scrittura)

Piove. Tictictictic, sul vetro della finestra.
Alcune gocce scivolano rapide, senza esitazioni, concedendosi solo leggerissime deviazioni curve. Altre compiono scarti improvvisi, disegnano angoli acuti zigzagando impazzite, incapaci di trovare una direzione certa. Rigano la superficie liscia, disegnano capillari esangui, spettri di rami senza foglie.
Piove. Tictictic.
Altre ancora se ne stanno incollate immobili. Resistono stoicamente alla gravità, aspettano.
Piove. Tictic.
Le gocce sul vetro sono come le persone.

martedì 24 novembre 2009

Sulla poesia di Bondi #2

Sandro Bondi è innanzitutto un poeta straordinariamente prolifico. Ogni occasione, ogni incontro è buono per buttar giù quattro versi. Egli trabocca di sentimenti che evidentemente si fanno parola, chiedendo disperatamente di essere scritti. Ha dedicato poesie a chiunque nel giro delle sue conoscenze, a destra e a manca. E’ infatti poeta politicamente trasversale, che soprattutto riesce a proporre sempre parole e concetti assolutamente nuovi.
Partiamo subito con gli esempi concreti. Citiamo qui le parole dello stesso Bondi, così sincere e coinvolte, da rappresentare la presentazione ideale per il “misurato” componimento dedicato a Silvio Berlusconi. Dice il Bondi: “Avevo scritto un anno fa proprio sulle pagine di Vanity Fair che l’avventura umana e politica di Silvio Berlusconi non avrebbe potuto chiudersi nel modo in cui si pronosticava dopo il voto del 2006, ma che avrebbe conosciuto, come tutte le belle storie, un lieto fine. E difatti, dopo traversie di ogni tipo avvenute in questi ultimi quattordici anni, ecco che Silvio Berlusconi vince nuovamente con un vero e proprio plebiscito. In questo momento il mio stato d'animo è comprensibilmente di felicità e di ammirazione per un uomo che, anche in questa campagna elettorale, ha saputo non solo rappresentare meglio di altri le speranze di cambiamento della maggioranza degli italiani, ma, soprattutto, che si è speso senza risparmio di energia, con una generosità e un entusiasmo commoventi.
Gli dedico con affetto questa poesia.

Magico silenzio
Intenerito ardore
Campo di girasoli
Sole dell’allegria


“Versi diversi” si chiama la rubrica di Vanity Fair che ospita gli “haiku” all’italiana di Bondi (mi si perdoni l’impropria metafora e soprattutto mi perdonino i giapponesi, ma si tratta solo di una sbrigativa semplificazione). Ma poi diversi da chi? Un momento! Versi Diversi? Nemmeno troppo! Ci torna in mente infatti con violenza un’altra poesia di Bondi, intitolata “Per le nozze di Elio Vito”:

Fra le tue braccia magico silenzio
Fra le tue braccia intenerito ardore
Fra le tue braccia campo di girasoli
Fra le tue braccia sole dell’allegria


Ma come? E’ uguale! L’ha riciclata! Non ci posso credere il “Vate paraculo da Fivizzano” ha proprio una faccia da tolla di proporzioni epiche (altro che poetiche). Ma poi, fare questo a Silvio!

Accusiamo il colpo e nonostante un malcelato disgusto, proviamo a portare avanti la nostra modesta analisi.
Dicevamo che il “vate” ha dedicato poesie a chiunque. Per esempio a Stefania Prestigiacomo:

Luna indifferente
Materna sensualità
Velo trasparente
Severo abbandono


Oppure a Michela Vittoria Brambilla

Ignara bellezza
Rubata sensualità
Fiore reclinato
Peccato d’amore


Per ora fermiamoci qua, ma anticipiamo che bersaglio della sensibilità traboccante del Bondi sono stati anche Anna Finocchiaro, Giuliano Ferrara, Luciana Littizzetto, Barack Obama, alcune ragazze incontrate sul treno ecc. ecc. ecc. (tre volte, perché la creatività del nostro è davvero inarrestabile. Il terrore del foglio bianco gli fa un baffo. Per lui respirare e scrivere sono un sol gesto in effetti, l’uno praticamente la conseguenza dell’altro: “scrivo dunque sono!” potrebbe dire Bondi stesso).

Le poesie citate sono comunque tutte abbastanza esemplari della tecnica poetica del Bondi. Il soggetto viene “ridotto” a pochi esemplificativi concetti a loro volta ridotti semplicemente a sostantivo più aggettivo. Ma è proprio qui che il Bondi denuncia la sua straordinaria originalità poetica. L’accostamento del sostantivo e dell’aggettivo è soprendente. Stupisce per l’incredibile temerarietà. Al di là della decostruzione linguistica (ottenuta per sottrazione estrema) è questo che rende il poetare bondiano unico.
Rileggiamo la poesia dedicata a Stefania Prestigiacomo. Chi avrebbe mai potuto anche solo pensare di riferirsi alla luna come indifferente? O immaginare un velo trasparente? Ci colpiscono poi come un pugno la materna sensualità e il severo abbandono. E ancora ignara bellezza, riferendosi a Michela Vittoria Brambilla, rubata sensualità, fiore reclinato, peccato d’amore. Dalla poesia bondiana non sono assenti solo tutti quegli inutili orpelli grammaticali e sintattici della lingua, che egli riduce al midollo, all’essenza significante, sono anche assenti i luoghi comuni classici del dire poetico. Egli introduce in poesia oggetti che mai prima d’ora vi erano entrati: la luna, l’amore, la sensualità!
Ci scusiamo per il modo caotico con cui stiamo presentando suggestioni e idee sull’opera bondiana. Ma a contatto con cotanta poesia la nostra lucidità intepretativa vacilla, i ragionamenti si offuscano, le intuizioni affiorano alla rinfusa, così come ve le presentiamo.
Alcuni versi della poesia alla Brambilla però, seppur fulgidi, sono caratterizzati da un’estrema “ermeticità”, che a malapena siamo sicuri di comprendere fino in fondo. Quel fiore reclinato, apre infatti, a ben vedere, orizzonti a una semplice occhiata assolutamente insospettabili. Il Bondi e la Brambilla hanno trombato? E per di più in auto? Lei però, ignara bellezza, non se n’è accorta, il che potrebbe indicare che l'orgasmo sia solo immaginato, frutto dei sogni perversi del vate poeta, ecco perché la sensualità appare rubata. L’unico dubbio è se nel sogno bondiano la Brambilla fosse distesa sul sedile opportunamente reclinato, oppure se ella, ovvero il fiore, piegasse il capo (reclinato appunto) nel gesto tipico della fellazio, gesto che, per l’animo religioso e conseguentemente contrito del Bondi, giustificherebbe il verso finale peccato d’amore!

Chiuderei qui la seconda parte del nostro excursus, in attesa di misurarci con il capolavoro bondiano: quello che è stato già definito il “trittico della sacra famiglia”. Vi propongo infine un mio personale misero tentativo di imitazione dello stile bondiano, solo per dimostare quanto i componimenti del nostro (a parte la poesia riciclata a Silvio Berlusconi) non siano affatto casuali e quindi difficilmente riproducibili:

A Sandro Bondi

Preveggente sfera
Rosso pentimento
Clamore sommesso
Peccato d’orgoglio


Due giorni due, per completarla. Sono sconvolto, provato per l’immenso sforzo, eppure so che a nulla è valso. Non me ne voglia Bondi per questa mia dedica così inadeguata

giovedì 19 novembre 2009

Sulla poesia (si fa per dire) di Sandro Bondi.


Chi non ha mai scritto versi poetici durante l’adolescenza?
Di solito però gli strazi del cuore, i bollori erotici, il fuoco della ribellione, tipici di quell’età così ingenuamente vanesia e audacemente vanitosa, così spavaldamente eroica e burrascosamente passionale, seppur affidati a parola scritte, restano pur sempre parole "solo nostre". Poiché a quell’età, in cui un giorno ti senti sorretto da una volontà di potenza senza limiti e l’altro atterrito da una melanconica malinconia senza uscita, è quasi inevitabile per alcuni rigurgitare inchiostro su candide pagine, inciderle con parole che sono altrettante ferite, cicatrici scure destinate però quasi sempre all'oblio di un cassetto segreto. Sono parole affidate a un diario. Parole mute ripiegate in una lettera mai spedita. “Versi” a esclusivo uso personale – che non prevedono utilizzatore finale – semplici (o complessi) sfoghi liberatori su carta, che se mai decidessimo, infine, di offrire alla critica lettura di un amico fidato, dell’amico del cuore (quell’unico essere umano in grado di comprendere le vibrazioni linguistiche della nostra anima poetica), lo faremmo comunque con un certo evidente imbarazzo, mentre senz'altro un fuoco vivo ci colorerebbe le guance e la trachea si avvilupperebbe in un soffocante nodo gordiano!
Se poi, malauguratamente o fortunatamente, a qualcuno di questi stagionali “poeti” – per lo più in preda a deliri mitomani, ma talvolta (si sa mai) guidato dalla veritiera sensazione di essere in possesso di una certa talentuosa genialità - fosse venuto in mente di inviare i propri scritti a un editore, compito di quest’ultimo, senza pietà alcuna, sarebbe stato sì quello di vagliare attentamente e criticamente il testo, ma poi, nella triste eventualità, anche quello di, professionalmente e inevitabilmente, "stroncare", con cinica e chirurgica lucidità, il mitomane di turno, onde evitare di imbrattare con insignificante inchiostro le compiante vestigia di preziosissima natura. Viceversa, scorgendo tra le righe l’indubitabile talento, l’accecante genialità, l'editore avrebbe altresì avuto il dovere, con altrettanta lucidità, di offrire senza indugio le preziose parole così fortunosamente rinvenute, all’umanità intera. O almeno ai propri lettori.
E' chiaro quindi che la decisione di pubblicare gli scritti bondiani da parte del direttore di Vanity Fair, Luca Dini, ci incuriosisce profondamente, ci spiazza, ci demoralizza, ci atterrisce e infine sollecita in noi smottamenti gastrointestinali di portata apocalittica: il "big one" della scoreggia! Ci preme insomma tentare di comprendere quale recondito criterio letterario o meno possa aver guidato la scelta editoriale di cotanta impegnata rivista. Perchè mai il nobile e professionale Dini, invece di fare della miseria poetica del Bondi palle di carta utili per il tiro al cestino, oppure conservarne i manoscritti ad uso invernale, magari per una propria (eventuale) magione di campagna classicamente, si sa, munite di romantico caminetto (antico e nobile inceneritore di "cazzate") abbia invece deciso di rendere pubblici i puerili deliri del sedicente poeta (è con un senso di assoluta inadaguetezza lessicale che ci riferiamo a Sandro Bondi in questi termini), resta davvero un mistero imperdonabile.
Avrà forse Dini avuto onorevoli quanto utilissimi scopi didattici? Come dire: giovani aspiranti poeti ecco cosa non è autentica poesia, in nessuno dei sensi che il sostantivo “poesia” possa ragionevolmente evocare. Oppure la redazione di Vanity Fair è zeppa di “orridi comunisti” senza scrupoli che intendono così, maliziosamente, gettare cascate di ridicolo, una vera e propria esondazione di vergogna, sul legittimo governo delle destre democraticamente eletto, mentre l’ignaro e mite Bondi, ingenuamente lusingato da cotanta pubblica(ta) attenzione, non si accorge di nulla. Oppure si tratta di un'operazione di satira grottesca (d'altra parte particolarmente esilaranti le opere bondiane lo sono davvero). Solo che senza curarsi di segnalare in qualche modo tale intento, senza cioè la cornice satirica adeguata, ciò che rimane, ahimè, sono solo le risate destate dal ridicolo.
Ad ogni modo noi sprovveduti lettori, critici improvvisati, amanti ingenui delle lettere e della letteratura, osiamo sperare che il direttore Dini ci spieghi. Noi che ci portiamo dentro questo cruccio insopprimibile, perché sappiamo – basterebbe d'altra parte una breve circumnavigazione per la rete per rendersene conto – che di talenti autentici – poetici, ma non solo - ce ne sono eccome – desideriamo con ogni fibra del nostro essere che ci venga svelato l’arcano: perché Bondi? Perché assecondare l’ego poetico/patetico (tanto malauguratamente smisurato, quanto inauditamente ingiustificato) dello sprovveduto Bondi, anziché cogliere la doverosa occasione di offrire a tale maldestro scrittore una critica sincera, facendo l’unica cosa che chi fa con passione e responsabilità il mestiere del direttore Luca Dini avrebbe dovuto fare, ovvero relegare la stucchevole "bava di seppia" di Bondi al più totale anonimato. Se non altro come segno di rispetto nei confronti di tutti quei talenti, ingiustamente inediti, che hanno la semplice sfortuna di avere semplicemente grandi sentimenti, enormi capacità percettive e grande padronanza della lingua, senza però essere politicamente onorevoli, senza avere cioè l'onore (o il disonore) di passare di tanto in tanto davanti a qualche televisiva telecamera di massa... (segue… con esempi concreti e critica puntuale dei versi bondiani).

mercoledì 11 novembre 2009

Prove di incipit e di stile

Anche oggi la città è avvolta in un velo liquido. Tutt'intorno solo sfumature sbiadite di un grigio antico che ricorda dagherrotipi violentati dal tempo. L'atmosfera fuori è soffocante. Piove senza interruzione da quattro giorni. Tictictictic sul vetro della finestra. E' strano non trovate? Alcune gocce scivolano giù, a picco, sterzano, rallentano, quasi si fermano, proseguono, accelerano, spariscono. Rigano la superficie liscia, disegnano capillari esangui, spettri di rami senza foglie. Altre invece, prodezza verticale, se ne stanno incollate, immobili, si fanno scherno della gravità, divorano il tempo, lo inghiottono. Infatti, a esser sinceri, non lo so da quant'è che me ne sto qui a osservare le gocce di pioggia sul vetro. Potrebbero essere dieci minuti, o forse un'ora.
Tictictictic. E' quasi sera.
Sono sdraiato sul letto disfatto, vestito e con le scarpe ai piedi. Fumo. O meglio, tengo semplicemente tra le dita una Chesterfield, nell'attesa che si consumi tutta. L'intonaco del soffitto, sopra la coltre brumosa che satura la stanza, è vistosamente crepato. Devo proprio decidermi a sistemarlo.

Ecco. Comincerei da qui. Da quel giorno in cui Tore andò con gli amici a vedere la televisione da Don Ciccio. Un Brionvega venti pollici, incassato in un modbile di radica. Era un giovedì e perciò ci sarebbe stato il telequiz di Mike Bongiorno, ma soprattutto, forse, ci sarebbe stata Maria.

Marco è proprio come te. Una persona come tante. Uno al quale è capitata in sorte l'esistenza e che, vivendo, prova quotidianamente a fare del suo meglio. Non è un formidabile genio, non ha un temperamento particolarmente coraggioso. E' un sognatore. La speranza è probabilmente il concetto che più di ogni altro caratterizza meglio il suo carattere sostanzialmente mite.

Marco è solo nella camera da letto del suo minuscolo appartamento. Sta fumando una Chesterfield, sdraiato sul letto disfatto. Guarda il soffitto sopra la coltre brumosa che satura la stanza. L'intonaco è tutto crepato. Suo padre, Salvatore, è seduto a un tavolino del bar all'angolo. Ha appena bevuto il suo caffè e scherza con il suo vicino Vito. Samuel, ha concluso la sua lezione e ha congedato gli studenti. Fuori è già buio. Pensa a Silvia, che probabilmente in quel preciso momento starà parcheggiando la mini sottocasa. Giona... Enrico... Alessia... Daniele... Franco... Luna corre.